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THE LIVING AND THE DEAD, BY SIMON RUMLEY (2006)

 

The_Living_and_the_Dead_PosterTutti, prima o poi, sono costretti ad affrontare situazioni dolorose, o addirittura traumatiche, nel proprio percorso di vita, qualcuno ne esce forgiato e migliore, qualcun altro più cinico e disilluso, altri ancora riescono ad esorcizzare la propria sofferenza e a fare in modo che da una disgrazia scaturisca qualcosa di terapeutico e prezioso.

Simon Rumley, regista e sceneggiatore indipendente britannico, è certamente tra questi ultimi: orfano di padre, stroncato da un infarto solo pochi mesi prima, ha visto la madre spegnersi rapidamente a causa di un terribile male.  Assistita da una zia, anche lei con una salute precaria, la donna morì proprio il giorno della festa della mamma, per una crudele beffa del destino.

Questo sfortunato concorso di eventi gli diede la sinistra sensazione di essere l’unico vivo in una casa di morti,  facendogli balenare per la mente lo script di quello che, qualche anno più tardi, diverrà un film di grande spessore e sensibilità, oltre che di indiscutibile valore artistico.    

“The living and the dead” inizia mostrandoci subito una situazione di grande disagio e squallore, vissuta da un nucleo famigliare dilaniato dallo spettro della malattia e in gravi condizioni di indigenza: il marito Donald (Lloyd Pack), aristocratico inglese dal piglio severo, la moglie Nancy (Kate Fahy), malata terminale, e il figlio James (Leo Bill), affetto da psicosi e da un grave ritardo mentale.

Dovendo racimolare i soldi necessari a sostenere i costi dell’operazione per la consorte, il capofamiglia è costretto ad assentarsi da casa per qualche giorno, per recarsi a Londra.

Il figlio James vorrebbe sfruttare questa circostanza per dimostrare che è perfettamente in grado di occuparsi della madre inferma, e per riuscire a guadagnarsi, in tal modo, l’orgoglio di quel padre così distante che lo tratta come fosse un bambino e che quasi si vergogna del suo handicap, tanto da impedirgli ogni contatto col mondo esterno.

Straziante, a tal proposito, la scena in cui James vorrebbe aprire la porta al fattorino ma viene prontamente trattenuto dal padre, che senza mezzi termini gli ricorda che lui non piace alla gente, invitandolo a nascondersi.

Donald,  pressato dalle continue richieste del figlio di lasciargli fare “l’uomo di casa”, gli oppone un netto rifiuto, ribattendo che non sarà certo questo suo capriccio a renderlo fiero di lui.

Non può immaginare però che il suo diniego accrescerà ancor più la brama di James di un riscatto, a tal punto che, rimasto solo con la madre, si barricherà nell’austero maniero in cui vivono, negando l’accesso all’infermiera addetta all’assistenza.

Naturalmente il ragazzo, dipendente da psicofarmaci e totalmente avulso dalla realtà, non sarà capace di sostituirla e la frustrazione, generata dal fallimento di non saper gestire la situazione, lo risucchierà nel baratro della follia, con conseguenze funeste.

Un incipit, dunque, che prospetta il peggiore degli scenari: una donna in fin di vita e non autosufficiente, nelle mani di un ragazzo mentalmente disabile e con turbe maniaco-depressive, in un’enorme e isolata magione della campagna inglese, sarebbe già un motivo sufficiente a suscitare un disagio e un’angoscia tali da restarti addosso per tutta la durata del film.

Come se non bastasse, James, imbottito di medicinali, inghiottiti come fossero caramelle, e in balìa delle sue allucinazioni, diventa una mina impazzita fuori controllo, pericoloso per sé e per chi lo circonda, dolorosamente solo nei deliri partoriti dalla sua coscienza alterata, amplificata dalle accelerazioni frenetiche della mdp, in stile videoclip, e da uno score musicale electro-industrial, in un continuo confondersi di realtà e finzione, passato e presente.

Gli inserti onirici e psichedelici, che richiamano le surreali atmosfere lynchane, ci permettono di entrare nella psiche del protagonista, nel suo Io così squilibrato e caotico, ipereccitato e visionario.

Non lasciatevi dunque ingannare dal titolo, che ricorda gli zombie romeriani, “The living and the dead” è un allucinante dramma filiare a tinte forti, con delle incursioni nell’horror e nel thriller psicologico, in cui si narra di un Orrore ancora più terrificante perché possibile, come può essere il calvario di una malattia incurabile, la rassegnata impotenza davanti a un destino incontrovertibile, la disabilità vissuta nell’incomunicabilità e nell’alienazione e la disgregazione di una famiglia, un tempo felice.

Il regista condensa in poco più di ottanta minuti tutto il suo tormento e la sua disperazione, mettendo anima e cuore nel progetto, oltre a tutto il suo genio creativo e alla sua tecnica impeccabile, con le quali realizza un’opera raffinata e al tempo stesso inquietante, capace di afferrare il cuore e stritolarlo, come in una gigante e minacciosa pressa.

Tante le scene che restano indelebili nella memoria, scioccanti e da pelle d’oca (su tutte quella in cui James si auto-infligge una serie di iniezioni nel braccio) e quelle tristi e piene di grazia, accompagnate dalle note melanconiche di un pianoforte.

Meritevoli di lodi sono anche i personaggi principali, provenienti tutti dal mondo del teatro e dotati di un talento prodigioso, in particolar modo il protagonista Leo Bill, che folgora lo spettatore con una performance indimenticabile, portando sullo schermo il disagio psichico e il deficit intellettivo con impressionante realismo, e regalandoci un personaggio intenso, complesso, tragico e commovente, un “enfant terrible” con cui è impossibile non empatizzare.

Pare che la Tottenham House, location in cui è girato l’intero film, fosse un ospedale durante la Prima Guerra Mondiale, divenuto in seguito collegio maschile e infine clinica per la riabilitazione dei tossicodipendenti.

Ma anche la dimora di tre fantasmi avvistati, negli anni, al suo interno: un soldato, un bambino ed un’anziana donna.

Il regista ha fortemente voluto lasciare l’edificio nello stato di abbandono in cui versava, scelta che si è rivelata azzeccatissima:  l’aria fatiscente, gli arredi spogli e vecchi, le mura decadenti e marce, il degrado e la sporcizia non sono che una metafora della malattia e della solitudine, di un presente pieno di miseria e dolore, percepibili ovunque tranne che nell’unica foto, inquadrata più volte, che vede la famiglia serena e sorridente, a rievocare un passato perduto per sempre.

Eccellente infine la fotografia, gelida e scarna nel primo tempo, coadiuvata da una regia che abbonda in inquadrature fisse, come una pièce teatrale che mette in scena una penosa vicenda famigliare,  e colorata e carica nella seconda parte, rafforzata da un montaggio isterico e frammentato, che ci conduce negli abissi della follia umana e di uno spaventoso isolamento, che solo chi ha vissuto in prima persona l’onta della malattia può realmente capire.

Parlando del suo lavoro nel suo sito web, Rumley ha ammesso di aver subìto l’influenza del regista David Lynch e del drammaturgo Samuel Beckett (noto per il suo teatro dell’assurdo), precisando: “Avevo originariamente scritto il pezzo come fosse un incubo; disturbante e surreale, inquietante e a tratti volutamente illogico. Volevo ricreare visivamente l’orrore e l’incertezza, l’inferno in cui ero precipitato, l’irrealtà, il trauma, la confusione…”

Oltre ad aver ricevuto numerosi elogi nei diversi Film festival in giro per il mondo,  questo devastante thriller introspettivo e sperimentale è stato pluripremiato all’Austin Fantastic Fest, riscuotendo riconoscimenti anche nei nostrani Film Festival di Campobasso, Ravenna e Salerno e una menzione speciale al Festival Internazionale del Cinema Fantastico di Sitges.

Girato in poco meno di tre settimane, “The living and the dead” è senza alcun dubbio la sorpresa cinematografica del 2006, un luminoso diamante nella giungla delle tante pellicole prodotte, da recuperare assolutamente se si vuole assistere ad un toccante capolavoro di art house, atroce e poetico, viscerale e potente, lacerante ed intimista.

Simon Rumley ha dedicato il film ai suoi genitori, David e Sheila,  scomparsi prematuramente, a breve distanza l’uno dall’altra.

Di Eliana Romano

Una citazione per auto-definirmi?"Scomoda sì perché non so tacere mai!" Appassionata di Cinema sin dall'infanzia (in particolare di quello indipendente e dei sottogeneri weird, survival, revenge, slasher, drama-horror, thriller, horror sci-fi, home invasion, mokumentary ed epidemic movie) non ho potuto fare a meno di creare anch'io un mio blog in cui esprimere la mia su un genere in Italia bistrattato dalla distribuzione ma che fa sempre nuovi proseliti. Se avete voglia di venire a conoscenza degli horror mai distribuiti ma disponibili on line, questa è la pagina che fa per voi, visto che sono un'esperta nello scovare quelle piccole perle cinematografiche snobbate dai più ma che meritano almeno una visione. Ma troverete anche qualche stroncatura cattivella, perché di horror mal riusciti, che sfiorano il ridicolo, ce ne sono in abbondanza... Mi sembra doveroso concludere, per non prendere troppo sul serio questo e altri blog con lo stesso intento, con questa sacrosanta verità: "Per molti versi la professione del critico è facile. Rischiamo molto poco, pur approfittando del grande potere che abbiamo su coloro che sottopongono il loro lavoro al nostro giudizio. Prosperiamo grazie alle recensioni negative, che sono uno spasso da scrivere e da leggere. Ma la triste realtà a cui ci dobbiamo rassegnare è che, nel grande disegno delle cose, anche l'opera più mediocre ha molta più anima del nostro giudizio che la definisce tale. (Anton Ego) Enjoy!

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